Federazione regionale lombarda, relazione del Comitato di reggenza/Il 31° congresso si è tenuto a Milano il 25 - 26 febbraio. Prospettive del Paese e dell’Edera Riaggregarsi in un soggetto politico distinto Relazione del comitato di reggenza del 31° Congresso regionale della Federazione regionale lombarda del Pri, Milano 25-26 febbraio 2012 Questo Comitato di Reggenza svolgerà una relazione più proiettata verso il futuro che sul rendiconto di quanto fatto dalla Direzione Regionale nel periodo che ci separa dall’ultimo Congresso. Esso infatti si è insediato su mandato della Direzione Regionale il 24 settembre 2011, a seguito delle dimissioni dell’amico Visco da segretario regionale e della conseguente decadenza del suo esecutivo. Anche perché quello che ci interessa è analizzare la condizione politica generale, le sue prospettive e come in queste si possa collocare l’azione del PRI, sia a livello nazionale sia a livello regionale. Partiremo dal giudizio sulla situazione nazionale, perché nel giro di pochi mesi tutto è cambiato. La maggioranza, che appariva quasi bulgara e che era uscita vincitrice dalle elezioni del 2008, si è progressivamente sfarinata: per sottovalutazione della reale gravità dei problemi del Paese e per contrasti interni tra le due maggiori forze della coalizione per cui le più timide aperture liberali del PDL venivano bloccate dalla Lega. E lo sfarinamento non si è rilevato solo nella perdita di consenso numerico del governo Berlusconi alla Camera, ma anche nella sua sostanziale incapacità, chiuso tra le richieste del premier e i veti del Ministro del Tesoro, di prendere tempestivamente le necessarie decisioni. E quand’anche queste si delineavano interveniva, come nel caso delle pensioni, il veto della Lega. Ci è sembrato d’assistere negli ultimi mesi del governo Berlusconi ad un calvario analogo, "mutatis mutandis", a quello conosciuto tra il 2007 e il 2008 dal governo Prodi. Ed il ricorso ad un governo di emergenza (preferiamo questo termine a quello di governo tecnico), deciso dal Capo dello Stato dopo le dimissioni di Berlusconi, indica il livello di crisi della cosiddetta seconda Repubblica e dei meccanismi elettorali e istituzionali che avrebbero dovuto sostanziarla. Sul "Corriere della Sera" di giovedì 19 gennaio, un autorevole politologo, che ebbe con noi non pochi elementi di consonanza in passato, all’epoca della Federazione Laica per le elezioni europee, ha esaltato i vantaggi del maggioritario e demonizzato l’ipotesi di un ritorno al proporzionale. Sostenendo che il maggioritario ha un valore inclusivo anche delle estreme, inducendole alla moderazione, mentre il proporzionale, garantendo che siano comunque sempre gli stessi partiti a governare senza alternanza, respinge le estreme su posizioni più radicali ed intransigenti. In teoria il ragionamento non fa una grinza. Ma l’esperienza italiana insegna che il maggioritario, obbligando, a destra come a sinistra, al recupero di tutte le realtà marginali, anche di quelle antisistema, penalizza l’azione della coalizione vincente. E’ stato così per Prodi con Rifondazione e con i Comunisti Italiani. E’ stato così per Berlusconi con la Lega. Un grande partito moderato come il PDL o un grande partito riformista come il PD non possono, se vogliono rappresentare forze di governo europeo, essere sottoposti alle pressioni e ai ricatti di chi alla logica politica europea è estraneo e pensa di trovare consensi cavalcando tutte le proteste localistiche, corporative o sindacali, al di fuori di una visione generale di sviluppo del Paese. Per questo salutiamo il governo di tregua di Mario Monti, al di là delle singole misure che ha adottato o adotterà, rispetto alle quali ci riserviamo libertà di giudizio, come una ventata di aria fresca che ha contribuito a sciogliere i vincoli dei blocchi preesistenti, anche se darà vantaggi agli estremismi della Lega e dell’IDV. Per contribuire a questo "scongelamento" i repubblicani hanno presentato due disegni di legge per la modifica delle norme relative all’elezione della Camera e del Senato, il così detto "Porcellum". Essi mirano a superare le maggiori criticità da tutti riconosciute nell’attuale sistema, sia reintroducendo la possibilità per gli elettori di scegliere i loro rappresentanti ponendo fine al Parlamento dei "nominati", sia stabilendo che l’eventuale premio di maggioranza scatti solo nel caso di una coalizione o di una lista che abbia raccolto il 50,01% dei voti espressi. Abbiamo preferito questo modello a quello così detto tedesco, per il quale ci eravamo espressi nelle tesi congressuali, per cercare di raggiungere più facilmente un punto di sintesi fra le diverse e contrastanti proposte attualmente sostenute dalle maggiori forze politiche. Ci auguriamo che le stesse, superando mere considerazioni di interesse di parte, agevolino la ricerca di una soluzione equilibrata simile a quella da noi prospettata, accogliendo anche l’autorevole appello del Capo dello Stato perché si superino le attuali disposizioni. Una riforma della legge elettorale, più ancora delle riforme istituzionali invocate per porre fine al bicameralismo perfetto, è essenziale per aprire nuovi processi politici di cui il paese ha bisogno e dei quali già si vedono le prime avvisaglie. Ma su questo punto centrale, a nostro avviso, e sul connesso ruolo che spetta al PRI nell’eventuale nuovo contesto, ci intratterremo più avanti nel corso di questa sia pur sintetica relazione. Desideriamo prima sviluppare alcune considerazioni che ci sembrano doverose relative alla grave situazione di crisi in cui si trova l’intera Unione Europea e, in particolare, alla difficile situazione economica che deve fronteggiare il nostro Paese. Sulla crisi europea. L’introduzione della moneta unica è stata di grande giovamento per tutti i paesi che l’hanno adottata. L’Italia ha potuto giovarsi della stabilità finanziaria che ha consentito bassi tassi di interesse e quindi minore indebitamento; e così altri paesi meno solidi dal punto di vista finanziario. Ma anche gli stati più solidi ne hanno tratto giovamento: tra il 2000 e il 2007 l’export della Germania verso il resto dell’eurozona è passato da 235 a 420 miliardi di euro, con un aumento dell’attivo di bilancia commerciale da 46 a 126 miliardi di euro. Purtroppo questo periodo favorevole, caratterizzato da una positiva congiuntura internazionale, non è stato utilizzato per rafforzare la governance europea e, attraverso di essa, la convergenza tendenziale tra le diverse economie dell’eurozona. E’ così,quando è esplosa la crisi greca, le istituzioni comunitarie sono state colte impreparate: una situazione che poteva essere gestita senza eccessivo affanno, anche per la sua modesta entità, si è progressivamente aggravata. Di fronte alla prima vera crisi dell’Euro, il messaggio che i mercati hanno ricevuto è stato chiaro: le istituzioni comunitarie non erano in grado di dispiegare una rete di protezione adeguata a difesa della loro moneta. E così l’incendio si è trasmesso, dalla Grecia, ad alcuni tra i maggiori paesi dell’eurozona. Il problema di fondo è allora quello della governance europea. Ed è un problema, come appare sempre più chiaramente, che non può trovare soluzione attraverso i vertici bilaterali tra Merkel e Sarkozy; e neppure con le modifiche del trattato su cui insiste la Germania e che rischiano anzi di imporre all’intera eurozona una vera e propria camicia di Nesso. C’è bisogno invece di rilanciare il disegno che fu dei padri fondatori, quello degli Stati Uniti d’Europa intesi come uno dei due pilastri della più vasta Comunità Atlantica. Un disegno da perseguire certamente con gradualità, ma anche con una coerente strategia politica, a cominciare dal rapido rafforzamento dei poteri e delle competenze della Banca Centrale Europea, senza i quali non è concepibile l’esistenza stessa di una moneta unica. L’unione Europea - e più segnatamente l’eurozona - si trova insomma di fronte ad un bivio: accelerare il processo di integrazione comunitaria o assistere impotente all’implosione della moneta unica e, come inevitabile conseguenza, alla fine del sogno che ha accompagnato intere generazioni di europei e al declassamento economico e politico di tutto il Vecchio Continente. Per quanto riguarda la situazione economica italiana. I provvedimenti del governo in materia di liberalizzazioni possono rappresentare un momento di svolta nella vita economica del Paese, se potranno incidere su una situazione incancrenita quale è quella della libertà economica e della concorrenza. A tal proposito basti ricordare che l’Italia, nella specifica graduatoria, è classificata al 92° posto sul campione di 100 nazioni. Nonostante questo, il semplice annunzio da parte del governo di voler intervenire per correggere questa grave anomalia ha prodotto una reazione abnorme ed incomprensibile da parte delle corporazioni che hanno goduto di privilegi assolutamente inaccettabili. Non va sottaciuto che le liberalizzazioni non sono attuate per punire una categoria sociale o un gruppo economico; sono invece essenziali per garantire a tutti i consumatori livelli di qualità e prezzo idonei per i prodotti, i servizi e le presentazioni di cui essi hanno bisogno: in sostanza questo obbiettivo è possibile conseguirlo solo in presenza di un sistema economico aperto, nel quale la concorrenza rappresenta la garanzia della qualità e del prezzo a tutela dei consumatori in senso lato. Purtroppo si deve constatare che nell’ultimo triennio (2008-2011) il problema non è stato assolutamente intaccato. Anzi nel 2008 il Governo allora in carica ha cancellato quei pochi provvedimenti, precedentemente varati, non ancora efficaci. Tutto ciò vuol dire che in Italia è del tutto inconsistente la cultura della concorrenza, con la conseguenza che la politica, tutelando le lobby portatrici di privilegi, finisce per penalizzare la stragrande maggioranza dei cittadini utenti. Al momento in cui scriviamo non disponiamo di informazioni ed elementi sufficienti a comprendere la portata dei provvedimenti varati dal Consiglio dei Ministri e quindi l’incisività degli stessi nell’intaccare la rete di privilegi oggi in atto. Va comunque ricordato che il Presidente della Repubblica li ha definiti corposi ed incisivi. Molto probabilmente questi primi provvedimenti in materia di liberalizzazioni non saranno la soluzione definitiva dei problemi annosi del Paese, ma certamente, se il Parlamento li approverà senza stravolgimenti, rappresenteranno una svolta strategica nell’apertura dell’economia nazionale alla competitività ed al mercato. Anche se, proprio in questa prospettiva, ci aspettiamo il superamento delle province con un intervento di carattere costituzionale e non solo con provvedimenti di ridimensionamento. Adeguate misure per verificare l'attività e stimolare l'operatività degli istituti bancari, che certo oggi non svolgono il loro compito di finanziare le imprese e lo sviluppo dell'economia, nonché l'apertura al mercato delle aziende di servizi degli enti locali e il piano annunciato nel campo del rilancio delle infrastrutture. Infatti in una situazione di crisi e di recessione economica le principali opzioni per la difesa del potere d’acquisto ed il controllo del costo della vita sono individuabili nel rilancio della concorrenza e nel controllo dell’inflazione: opportunità entrambe queste direttamente connesse al nodo delle liberalizzazioni. Per tornare ora al quadro politico generale ci sembra evidente come il processo di sfarinamento dell’attuale assetto riguardi non solo i rapporti fra le diverse componenti delle due coalizioni, ma coinvolga anche i maggiori partiti presenti nel nostro Paese. Nel PD è sempre più evidente il contrasto fra coloro che si richiamano a una logica riformista e quanti ascoltano le sirene provenienti dalla signora Camusso e dal sindacato e sono sensibili al richiamo di "Vasto". Nel PDL è ogni giorno più evidente il conflitto fra quanti si rendono conto della gravità della situazione del Paese e della necessità di una fase di tregua che consenta all’attuale Governo di giungere alla scadenza naturale della legislatura e coloro, in primo luogo gli ex AN, che vogliono staccare la spina e ritrovare un’intesa con la Lega. Magari mantenendo l’attuale legge elettorale, nell’illusoria speranza di una vittoria nelle urne che, se anche conseguita, difficilmente consentirebbe di dar vita a un governo privo di contraddizioni e quindi in grado di affrontare seriamente i problemi del Paese. Non siamo profeti e non possiamo quindi prevedere con certezza gli sviluppi del nostro divenire politico. Quello che, peraltro, è sotto gli occhi di tutti è la ripresa di un crescente attivismo del mondo cattolico, trasversale agli attuali schieramenti. Non si può certo ipotizzare il ritorno alla vecchia DC. Ma un "rassemblement" moderato, che raccolga la grande maggioranza del PDL, i centristi di Casini e Rutelli e, perché no, la componente cattolica del PD, qualora questo scegliesse la strada di Vasto, ci sembra un’ipotesi non peregrina. Se questo avvenisse, potrebbero mai i repubblicani, i laici, i liberali, i socialisti - riformisti acquietarsi nel ruolo di indipendenti di centro in un simile schieramento, rinunciando alle loro battaglie sui diritti civili e alla libertà di ricerca? O potrebbero altrimenti confondersi nell’ampia alleanza di Vasto con il giustizialismo di Di Pietro e il millenarismo velleitario di Vendola? Non crediamo proprio. Da qui la necessità per il PRI di rilanciare con forza il progetto di una riaggregazione dell’area laica liberal-democratica e liberal-socialista in un soggetto politico nuovo che abbia comunque, qualsiasi siano gli sviluppi futuri, la capacità di essere autonomo interlocutore delle maggiori forze politiche,senza vincoli aprioristici di maggioranza e senza pregiudizi. Vi sono importanti segnali di interesse verso questa ipotesi che vengono dal Partito Socialista di Nencini e dalla fondazione di Stefania Craxi, che ha recentemente lasciato il Popolo della Libertà, nonché da movimenti di intellettuali quali quelli che hanno dato vita all’associazione Libera Italia di Teodori e Covatta. Per questo ci sembra quanto mai opportuna l’iniziativa assunta dalla Direzione Nazionale del partito della costituzione di un gruppo di lavoro per arrivare a un’assemblea costituente che abbia l’obbiettivo di raccogliere, nelle forme e nei modi da definire, le sparse forze politiche dell’area repubblicana, liberal – democratica e liberal – socialista, con i maggiori contributi possibili della società civile. E proprio in questa prospettiva dobbiamo salutare quale fatto di grande rilevanza il superamento della diaspora repubblicana con la riunificazione con l'MRE ed il ritorno nel partito di tanti amici che si erano allontanati, con la Sen. Sbarbati, negli anni scorsi. Se questo è il quadro politico nazionale in cui va collocata l’azione del partito, da esso deve discendere anche l’impegno dei repubblicani nella nostra Regione. Una Regione si cui siamo stati in passato protagonisti, ma che oggi ci vede ridotti a un ruolo marginale. Non ci intratterremo su un giudizio dettagliato sull’operato dell’attuale giunta regionale. Dobbiamo però dire che il giudizio sostanzialmente positivo che avevano espresso nel congresso di dicembre del 2006 va in parte rivisto. Gli interventi nel settore delle infrastrutture, che tante speranze avevano suscitato anche in noi, sono rimasti fermi: basti pensare ai ritardi nella realizzazione dell'EXPO', alla difesa del ruolo di Malpensa e più in generale alle non edificanti vicende in cui sono stati coinvolti alcuni ex assessori regionali. Non si può certo addebitare alla Regione la responsabilità esclusiva di questi ritardi, ma ci saremmo aspettati maggiore iniziativa anche ai fini dello sblocco dei fondi statali. Ma proprio queste sommarie considerazioni sulla realtà regionale ci spingono a dire che, nel quadro generale che abbiamo prima delineato occorre che anche in Lombardia, in previsione della scadenza elettorale del 2015, il partito si attrezzi ai vari livelli e ricerchi le necessarie convergenze nell’area liberal – democratica e liberal – socialista perché possiamo essere presenti sulla scheda elettorale. Da questo punto di vista è importante che, sulle basi politiche prima indicate, le consociazioni locali affrontino le prossime amministrative ( di cui alleghiamo l’elenco per la Lombardia alla presente relazione), in modo da ricostruire un tessuto locale di presenze repubblicane. Amici, si concludono qui le considerazioni che abbiamo voluto sottoporre all’attenzione dei delegati del Congresso. Sappiamo che a qualcuno potrà apparire che abbiamo accettato scommesse impossibili. Ma era una scommessa impossibile nella prima metà dell’800 l’Unità d’Italia, era una scommessa impossibile negli anni del trionfo del regime fascista vedere la sua caduta, era una scommessa impossibile, anche dopo il 25 Luglio, la Repubblica. Dobbiamo scommettere anche su questa ripresa, nel nuovo secolo, del partito e delle forze liberal – democratiche e liberal – socialiste, spazzate via fra il ‘92 e il ‘94. Può apparire un sogno, ma senza scommesse con sé stessi e senza sogni, come vivrebbero gli uomini? Antonio Del Pennino, Sergio Borlenghi, Pippo Fiandaca |